By Alessandro Codegoni • Published 14 October 2022
La guerra in Ucraina, pur con tutti i suoi orrori e ingiustizie insopportabili, ci ha almeno aperto gli occhi su una cosa: il nostro mondo è fatto per i “tempi belli”.
In altre parole, tante delle nostre infrastrutture strategiche, create ai tempi della globalizzazione, quando l’idea di una guerra globale, o anche solo fra due nazioni avanzate, sembrava un’assurdità, sono pronte ad essere distrutte dal primo nemico che volesse attaccarci.
Dimostrazione plastica di questa pericolosa situazione l’attacco, da qualunque parte sia provenuto, ai due gasdotti North Stream nel Baltico, che è lì a ricordarci che buona parte dei rifornimenti energetici dell’Europa, corre in tubi posati sul fondo del mare, impossibili da controllare e difendere sulle migliaia di chilometri della loro lunghezza.
Cosa accadrebbe se chi ha fatto saltare il North Stream, interrompesse in inverno i rifornimenti da Algeria o Norvegia, oggi i nostri principali fornitori di gas? Ci troveremmo in ginocchio, senza neanche un attacco militare diretto.
Allo stesso modo sono altrettanto vulnerabili i cavi elettrici che collegano, e in futuro sempre più collegheranno, i vari paesi, o i cavi in fibra ottica lungo cui corre il 90% dei dati che fanno da linfa vitale al mondo moderno.
Tutte queste vulnerabilità hanno però delle possibili soluzioni, sia pure complesse e costose.
Per limitare l’importanza dei gasdotti, basterà ridurre e poi eliminare la dipendenza dal metano fossile, completando la transizione ecologica basata sulle fonti rinnovabili: “spegnere” un sistema energetico basato su migliaia di impianti eolici e solari, con tanti sistemi di stoccaggio distribuiti, sarebbe un incubo per eventuali sabotatori, molto più che far saltare qualche tubo.
Per evitare che il taglio di un cavo elettrico interrompa l’interscambio fra due nazioni, occorrerà aumentare le maglie delle interconnessioni, così da far circolare l’elettricità su diversi percorsi nella rete.
E per ridurre la dipendenza dell’Internet globale dai cavi, si potrebbe spostare quei flussi nello spazio, affidandoli a costellazioni di satelliti in orbita bassa: la prima in funzione, Starlink del solito Elon Musk, ha dimostrato la sua efficacia, salvando le comunicazioni dell’esercito ucraino dalla distruzione delle infrastrutture di terra.
C’è invece una vulnerabilità dei nostri sistemi energetici “da tempi belli”, di cui non si parla volentieri, anche perché non ha in prospettiva soluzioni efficaci: la possibilità che le centrali nucleari diventino bersagli, accidentali o volontari, di attacchi militari.
Chi scrive ha più volte paventato negli anni scorsi questa possibilità discutendo con “nuclearisti”, che hanno però fatto spallucce e ridacchiato di fronte a questa evenienza che per loro era solo l’ennesima scusa per non costruire le loro amate centrali nucleari.
Secondo i pro-nuke l’ipotesi sarebbe assurda, perché “quegli impianti sono progettati per resistere alla caduta di un grande aereo di linea sul reattore, e quindi bombe o colpi di cannone li scalfirebbero appena”. E quindi non ci dovremmo preoccupare dei missili che continuano a piovere intorno alla più grande centrale nucleare d’Europa, quella ucraina di Zaporizhzhia con 6 reattori da 950 MW.
Non sembra però condividere questo parere l’AIEA, l’agenzia Onu per il controllo del nucleare nel mondo, che sta facendo di tutto per creare una zona demilitarizzata intorno all’impianto, in modo da ridurre il rischio che venga centrato da qualche missile.
Ma perché si preoccupano tanto, viste le presunte “protezioni antiaereo” dei reattori?
Lo spiega adesso il rapporto “World Nuclear Industry Status Report” (pdf), che ogni anno fa il punto sulla situazione del nucleare nel mondo grazie al lavoro di un folto gruppo internazionale di esperti indipendenti dall’industria stessa.
Il report 2022 si apre con la triste constatazione che il nucleare fornisce ormai meno del 10% dell’elettricità mondiale e che il picco, raggiunto nel 2018 con 449 reattori per 396 GW installati, si sta allontanando sempre più, scendendo nel 2022 a 411 reattori per circa 370 GW.
Ma poi, da pagina 244, gli esperti della WNISR passano a considerare quali siano i rischi che corrono le centrali che finiscono in mezzo a una guerra.
Innanzitutto sfatano la leggenda del “reattore che resiste all’aereo che cade”: solo pochi impianti al mondo, i più moderni, sarebbero così corazzati da resistere a eventi distruttivi di quella scala, e nessuno di loro sarebbe comunque in grado di resistere a bombardamenti deliberati con bombe “sfonda bunker” o magari armi atomiche.
Secondariamente, non solo il reattore è il punto critico di una centrale, lo sono anche le piscine contenenti le barre di combustibile esausto, in genere non “blindate” come i reattori. Se un’esplosione le svuotasse, le barre non più raffreddate si incendierebbero per il calore di decadimento radioattivo, che resta fortissimo anche mesi dopo che il combustibile esausto è stato estratto dal reattore, spargendo attorno il loro mix di letali isotopi radioattivi.
In terzo luogo, non c’è bisogno di distruggere reattori o piscine, per innescare una catastrofe nucleare: una centrale atomica, infatti, continua a produrre enormi quantità di calore, anche se in essa la reazione a catena è stata bloccata dalle barre di controllo: il decadimento degli isotopi radioattivi nel combustibile irradiato ne emette 10 MW al momento dello “spegnimento” e ancora 2 MW un mese dopo.
Per questa ragione, come ci ha mostrato il caso di Fukushima, è sufficiente che si blocchi il sistema di raffreddamento del reattore, per la distruzione delle linee elettriche e dei generatori diesel di emergenza, oppure direttamente delle condutture dell’acqua, per provocare una rapida fusione del nocciolo, e il rilascio di radioattività nell’ambiente circostante.
Infine, avvertono nel WNISR, una centrale nucleare è un impianto industriale estremamente complesso, che richiede un numero elevato di tecnici e operai specializzati per funzionare in sicurezza: se questi, per qualche ragione, non possono accedere alla centrale o, come accade al personale dell’impianto di Zaporizhzhia, lavorano in condizioni anomale o stressanti, il rischio di incidente cresce esponenzialmente.
Dopo aver dettagliato con franchezza i gravi rischi a cui sono sottoposte le centrali nucleari durante dei conflitti armati, però, gli esperti della WNISR non dicono che cosa si dovrebbe fare per eliminarli o ridurli.
L’impressione, è che, in realtà, non si possa fare un bel niente: spenti o accesi, con il combustibile dentro o posto in piscine a raffreddarsi, gli impianti nucleari costituiscono, e costituiranno ormai per altri 100 anni almeno, degli eccezionali “moltiplicatori di danni” in caso di guerre, rendendo estremamente vulnerabili i paesi belligeranti che li ospitano.
Già un solo colpo non voluto, che distrugga i sistemi di raffreddamento di una centrale, potrebbe rendere inabitabile tutta la zona intorno all’impianto, molto più di quanto farebbe l’esplosione di un’atomica tattica.
In una bomba ci sono infatti pochi chilogrammi di elementi fissili, che sperimentano la reazione a catena solo per una frazione di secondo, mentre in una centrale ci sono invece tonnellate di uranio e plutonio, esposti a reazioni a catena per mesi e quindi imbottiti di isotopi radioattivi da fissione, per questo estremamente pericolosi.
Immaginiamoci poi che cosa accadrebbe se una delle parti decidesse di bersagliare intenzionalmente la rete di centrali dell’avversario con ordigni, anche convenzionali, in grado di scoperchiare i reattori stessi: un Armageddon nucleare, forse peggiore quanto a contaminazione dell’uso diretto di bombe atomiche, con danni inimmaginabili alla nazione colpita.
Fantastoria? Tanto fanta quanto la possibilità che due nazioni europee nel 2022 si scontrassero per la conquista o difesa di territori, manco fossimo nel XIX secolo.
Possono essere scenari scomodi, tanto terribili che a nessuno piace considerare, ma che dovrebbero entrare, vista la triste attualità, in qualsiasi dibattito razionale sul futuro energetico di un paese.