Pubblicato il 6 Luglio 2022 di Giulio Cavalli
C’è un nuovo asse nello scenario politico italiano che non stupisce per niente: Carlo Calenda e Matteo Salvini da qualche giorno si sono buttati a pesce sul nucleare, eldorado per ottenere qualche voto in più e per accarezzare la propria ossessione di distinguersi. Calenda ormai non rinuncia a rilanciare il ritorno al nucleare quasi quotidianamente, confidando nelle goccia che scava la pietra e fottendosene di quello che dice l’Unione europea che tanto ammira, ma solo quando gli torna utile.
Il 30 giugno il leader di Azione ha presentato in Senato una mozione per chiedere che il nucleare venga reintrodotto tra le fonti utilizzate dal nostro Paese per produrre energia. Secondo Calenda senza il nucleare sarà “impossibile” per l’Italia rispettare gli accordi europei per il 2050. Per questo Calenda già a marzo aveva avanzato la proposta di 8 centrali nucleari, con tre o quattro reattori ciascuna, per una potenza complessiva di 40 gigawatt, da combinare con l’uso di altre energie rinnovabili.
La retorica (piuttosto populista, secondo il solito refrain di certi pro nuke) è quella di energia “a basso costo” e con bassi livelli di dipendenza da fonti straniere, “reattori sicurissimi” e con “tempi rapidi di costruzione”. Peccato che secondo il rapporto dell’Iea il nucleare rappresenta la fonte di energia ecosostenibile più costosa: nel 2020, nell’Unione europea questa richiedeva una spesa di circa 150 dollari per ogni megawattora prodotto, contro i 60 dell’energia solare, i 50 dell’energia eolica con impianti su terra, e i 70 degli impianti eolici in mare.
Per quanto riguarda la rapidità di costruzione il World Nuclear Industry Status Report sottolinea ogni volta che la costruzione degli impianti va incontro molto spesso a lunghi ritardi, talvolta decennali, e a grandi aumenti dei costi rispetto ai preventivi iniziali. Un esempio è la Francia con la costruzione della centrale di Flamanville che è iniziata nel 2007 e avrebbe dovuto essere pronta entro il 2012, per un costo stimato di 3,3 miliardi di euro. Oggi però si prevede che la centrale sarà attiva non prima del 2023, e il costo è salito a 12,7 miliardi di euro, quasi quattro volte la cifra iniziale.
Calenda comunque insiste e ieri ha “prodotto” una nuova ricerca. In realtà chiamarla ricerca è un parolone, visto che si tratta di ben quattro slides (roba da presentazione alle scuole medie) che conferma e rilancia il documento di marzo. Come al solito poche specifiche – non dovrebbero essere i competenti? – ma soprattutto rimane il mistero su chi abbia redatto il documento.
Se si scorrono i responsabili tematici di Azione sul loro sito si scopre che ce né per tutti i gusti: dal responsabile “demografia e migrazione” al “responsabile editoriale e delle campagne” passando per una responsabile dedicata solo a “Roma capitale”, “Coesione territoriale centro-nord” e “Coesione territoriale centro-sud”, ben 2 responsabili per lo “sport” e un responsabile per i “media”. Non c’è nessuno però che si occupi di “energia”. Chi ha scritto quindi quel piano energetico? A domanda diretta Calenda non risponde.
“Professionisti del settore”, si limita a dire – ci mancherebbe – come se nel mito della “competenza” non conti il curriculum di chi redige le proposte. Ieri la curiosità sugli autori del documento serpeggia per tutto il giorno. Si parla di un non meglio definito “Centro Studi” che si scopre essere diretto da Gabriele Franchi che però è un economista.
Nel partito di Calenda “uno non vale uno” ma le diapositive per spingere il nucleare (che sarebbero una barzelletta in qualsiasi Consiglio d’amministrazione) vanno bene anche se le ha scritte Paperino. In compenso in serata arriva il capo di AssoNucleare Umberto Minopoli a sparare addosso “all’ambientalismo radicale” spiegandoci che «sulle Alpi 1500 anni fa passeggiavano gli elefanti di Annibale». Sbagliano di 500 anni in storia elementare, figuratevi l’attendibilità sui tempi di costruzione di una centrale.
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